Chi segue il mio blog da qualche tempo ha già un'idea precisa su quali forze centrifughe stiano operando nel settore culturale e più in particolare sul contesto editoriale italiano. Tra queste, ho sempre considerato i nuovi fenomeni del giornalismo e dell'editoria dell'informazione come un'avanguardia o un campo di sperimentazione delle logiche di produzione e commercializzazione dei contenuti editoriali. Per fare un esempio concreto, guardare come opera il mondo dell'informazione oggi è un po' come avere una macchina del tempo utilizzandola per sbirciare il campo dell'editoria generalista tra quattro o cinque anni.
Ovviamente, nessun cambiamento può essere visto in assoluto come positivo o negativo, ma lo può diventare quando ci si cala nelle parti dei rispettivi attori e protagonisti. L'archetipo del giornalista è ben radicato nella nostra cultura quotidiana: una figura ammirata, da alcuni temuta, altamente evocativa e per questo spesso romanzata e impiegata nelle sceneggiature di moltissimi film. Oggi quella figura si sta estinguendo.
L'ultimo grido di allarme ci giunge da Antonio Loconte, autore del libro "Senza paracadute"; un giornalista che ci offre uno spaccato molto realistico (e per questo tanto crudo quanto particolareggiato) del contesto nel quale operano gli autori dell'informazione. Basta prendere alcuni stralci dalla sua intervista su Go-Bari per accorgersi di come si stiano sgretolando i classici modelli dell'editoria tradizionale, portandosi via al contempo anche le relative sicurezze lavorative di tanti ottimi professionisti del campo.
"E’ sicuramente una battaglia [...] contro chi fa finta che non esistano colleghi precari da una vita, giovani sfruttati a due euro a pezzo o stagisti equiparati a un professionista. In Italia ci sono circa 110mila giornalisti, dei quali 60mila precari. Di questi 1 su 6 vive sotto la soglia della povertà". Ma Loconte non si limita alle critiche e introietta nel proprio pensiero anche memi costruttivi, ovvero possibili soluzioni alla crisi che affligge il settore dell'informazione: "Si deve iniziare soprattutto a non fare alcune cose. Non si possono continuare a sfornare professionisti senza che ci siano richieste di lavoro [...] Non si può consentire a un pubblicista per hobby, che nella vita fa il medico, il farmacista, l’avvocato o l’ingegnere di fare ciò che dovrebbe fare un giornalista. Non si può permettere a uno stagista o a un tirocinante di fare le stesse cose che un professionista ha imparato in vent’anni di gavetta e mestiere [...] Non si può nascondere la testa dall’altra parte quando qualcuno viene licenziato senza una giusta causa, o solo per aver espresso un’idea".
E' mia opinione che il giornalismo sia solo la punta di un iceberg, ovvero del profondo cambiamento che sta interessando tutta l'industria culturale. Se è vero che stiamo passando da un mercato di massa ad una massa di mercati, allora anche gli operatori più radicati devono rendersi conto che è errato tentare di mantenere lo status quo sulle rendite di posizione, perché cambiamenti di paradigma così radicali vengono sempre provocati da nuove esigenze dei lettori e non possono essere risolti operando semplicemente sui costi di produzione. Un assunto piuttosto semplice e del tutto logico, ma con molte difficoltà a collimare con le esigenze di utile e fatturato di un settore che è in crisi prima di tutto d'idee.
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